ARTICOLI E STUDI SUL FENOMENO UFO

martedì 5 febbraio 2008

ALLA RICERCA DEGLI EXTRATERRESTRI-PRIMA PARTE

ALLA RICERCA DEGLI EXTRATERRESTRI



1. GLI EXTRATERRESTRI: UN'IDEA MOLTO ANTICA

Siamo soli nell'Universo? La vita è un fenomeno irripetibile che si è potuto realizzare solo su questa Terra, o vi sono altri luoghi nei quali si è verificata la stessa cosa? Se esistessero, in giro per il Cosmo, altre forme di vita intelligente e tecnicamente progredite, come potremmo metterci in contatto con esse?

Sono tutti interrogativi molto avvincenti e di grande attualità ai quali, però, troppo spesso, si risponde in modo superficiale e con buona dose di presunzione. Noi cercheremo di affrontare il tema in termini rigorosamente scientifici, escludendo quindi dalla trattazione tutte quelle disquisizioni di carattere metafisico di cui si fa largo uso quando si dibatte questo argomento.

Oggi, come è facile verificare, molta gente comune e anche molti astronomi di professione sono convinti che esistano altri mondi abitati; alcuni però, fra cui chi scrive, lo sono un po’ meno. Comunque, prima di entrare nel merito della questione forse è opportuno ricordare che l'idea che potremmo non essere soli nell'Universo non è né originale, né moderna. Questa idea, cioè, non è legata all'attuale disponibilità di sofisticate strumentazioni di osservazione del cielo, né alle recenti conquiste dello spazio, ma era presente già nelle antiche civiltà e forse perfino nell'uomo primitivo. Il recente sviluppo dell’astronomia, pertanto, non ha affatto favorito queste convinzioni, anzi è vero il contrario. L’astronomia, creando una nuova visione del mondo, ha contribuito semmai ad allontanare dalla mente dell’uomo gli spiriti e le altre figure misteriose che in passato condizionavano in modo pesante e spesso decisivo l’attività umana e il controllo dei fenomeni naturali.

Gli antichi, come sappiamo, avevano ideato un modello di Universo ben diverso da quello che ha prodotto la scienza moderna e quindi non potevano ipotizzare luoghi adatti alla vita come li concepiamo noi oggi. Essi ritenevano che tutto si esaurisse su questa Terra, cioè su quello che per loro rappresentava il mondo intero. Sopra la Terra vi era il cielo che era ritenuto esattamente ciò che appare e cioè, di giorno, una volta azzurra illuminata dal Sole e, di notte, una coltre nera punteggiata di stelle le quali erano immaginate tutt'altra cosa da quello che effettivamente sono. Alcuni ritenevano che fossero diamanti incastonati su di un drappo scuro, altri forellini attraverso i quali si poteva scorgere il fuoco eterno che ardeva dall'altra parte, altri altre cose ancora, ma sempre di natura fantastica.

Successivamente i filosofi dell'antica Grecia, messi da parte i miti, considerarono l'esistenza di altri mondi un concetto razionale strettamente legato alla teoria atomistica della materia. Secondo questa teoria, inizialmente proposta da Leucippo e Democrito, il mondo sarebbe formato di atomi che si muovono disordinatamente nel vuoto. Poiché il numero degli atomi è infinito ed infinite sono le loro possibilità di aggregazione, non esisterebbe alcun impedimento alla formazione di altri mondi, né alla presenza, su questi, di altre forme viventi. (Questa idea, tutto sommato, è molto simile a quella che spinge alcuni scienziati del nostro tempo alla ricerca di forme di vita extraterrestre. Essi affermano infatti che, data l'abbondanza della materia e l'uniformità della natura, i processi naturali che hanno portato alla formazione del sistema solare e del nostro pianeta dovrebbero ripetersi altrove e la vita dovrebbe emergere anche su quei mondi lontani, qualora si verificassero le stesse condizioni che si sono realizzate sulla Terra.)

In tempi più moderni l'idea di vita extraterrestre torna ad affiorare, ma sotto altre forme. Dopo la fine del geocentrismo tolemaico, Giordano Bruno parla dell'infinità dei mondi abitati, e per questa convinzione finirà bruciato vivo dopo aver subito un processo per eresia dall'autorità ecclesiastica. Il cristianesimo predicava, infatti, che Cristo era venuto appositamente sulla Terra per redimere gli uomini e pertanto la Terra doveva essere l'unico mondo abitato da queste creature privilegiate. Chi la pensava diversamente era considerato un eretico e doveva essere condannato alla giusta punizione.

Pochi anni più tardi Galilei puntò il suo cannocchiale sulla Luna e la vide disseminata di montagne e pianure, come la Terra. Galilei non credeva nella pluralità dei mondi abitati, tuttavia le sue osservazioni fecero nascere in molti il dubbio che anche sulla Luna vi potessero essere organismi viventi.

Altri grandi scienziati come Christiaan Huygens, Isaac Newton e William Herschel ritenevano verosimile che la vita si fosse potuta sviluppare anche su quei mondi lontani che nel frattempo telescopi sempre più potenti andavano scoprendo.

Alla fine dell'Ottocento, l'italiano Giovanni Virginio Schiaparelli osservò delle linee scure sulla superficie di Marte che chiamò "canali". La parola venne tradotta in inglese con "canals" che significa sì canali, ma canali artificiali, mentre il termine corretto sarebbe dovuto essere "channels". Ciò trasse in errore il mondo anglosassone che pensò a canali costruiti da esseri intelligenti. Più tardi, l'astronomo francese Camille Flammarion e soprattutto l'americano Percival Lowell, non ebbero alcun dubbio sulla natura di quelle striature osservabili con difficoltà al telescopio: esse erano canali costruiti da esseri intelligenti per fini pratici. Oggi sappiamo che i canali osservati su Marte erano semplici apparenze dovute all'allineamento casuale di montagne o a giochi d'ombre; i marziani non c'entrano.

In tempi recenti, dopo lo sviluppo della radioastronomia e dell'esplorazione spaziale, il problema dell'esistenza di forme di vita extraterrestri è stato riproposto su basi meno fantasiose ma, nello stesso tempo, con maggior vigore. Nasce perfino una nuova scienza, l'Esobiologia, che si occupa in modo specifico delle possibilità e delle condizioni di vita in ambienti alieni, cioè non terrestri.



2. LA SCIENZA E IL METODO SCIENTIFICO

Abbiamo detto, all'inizio, che ci proponevamo di affrontare il tema relativo alla presenza della vita nel Cosmo in termini rigorosamente scientifici. Pertanto, prima di procedere, è opportuno chiarire bene che cosa sia la scienza (o, più esattamente, le "scienze naturali"), specificandone la natura, i metodi di indagine e i fini che si prefigge.

Come tutti (o quasi) sanno, la ricerca scientifica opera secondo criteri che vennero indicati, nelle loro linee essenziali, quattrocento anni fa da Galilei: essi hanno prodotto finora ottimi risultati e oggi sono pienamente accettati dalla comunità scientifica.

I criteri indicati da Galilei impongono che l'indagine sui fenomeni naturali inizi sempre dall'osservazione attenta e scrupolosa della realtà sulla quale lo scienziato è tenuto ad eseguire delle misurazioni. Queste misurazioni producono i cosiddetti dati sperimentali che costituiscono la materia prima per il lavoro successivo. Se non ci sono i dati, o se questi sono scarsi e di cattiva qualità, non si fa scienza. Questa, per l’argomento che stiamo trattando, è una premessa molto importante e dalla quale in ogni caso non si deve prescindere.

Dopo aver raccolto i dati, e dopo averli sistemati organicamente all'interno di equazioni matematiche che prendono il nome di leggi, bisogna interpretarli. L'interpretazione dei dati sperimentali si fa attraverso la formulazione di ipotesi le quali, in pratica, non sono altro che idee e, come tutte le idee, possono essere buone o cattive, giuste o sbagliate. Per stabilire il pregio di un'ipotesi, la si sottopone alla prova dei fatti. Se l'ipotesi mostra di non essere in contraddizione con le leggi fondamentali di natura e con ulteriori osservazioni ed esperimenti, essa assume un significato più vasto ed è promossa a dignità di teoria, cioè, in pratica, di ipotesi più sicura. Anche la teoria, tuttavia, per quanto capace di fornire una spiegazione soddisfacente dei fenomeni naturali noti, poiché è e rimane anch'essa un'idea, può sempre venire abbandonata o modificata. Il corpo delle conoscenze scientifiche non è quindi qualche cosa di statico, di acquisito una volta per sempre, ma un prodotto dinamico, in continuo rifacimento.

E' bene allora ribadire che nel mondo della scienza non esiste un'autorità indiscussa, e nessuno è chiamato a fare atto di umiltà e di fiducia per credere ciecamente in quello che dice lo scienziato più bravo o più famoso del momento. Le verifiche delle teorie scientifiche devono poter essere avvallate da chiunque lo desideri e senza far ricorso a condizioni eccezionali. Per esempio, un fenomeno che si verificasse solo in assenza di altre persone che guardano, oppure facendo ricorso ad abilità che solo pochissimi possiedono, non può essere preso in considerazione dalla scienza. Questo è il motivo per il quale le verità scientifiche sono "migliori", ovvero più affidabili, delle altre: esse sono patrimonio di tutti e tutti le possono verificare.

Con questo non si vuol dire che la scienza sia superiore a qualsiasi altra attività umana, ma semplicemente che per fare scienza bisogna rispettare alcune regole precise e ormai ben consolidate. Esistono tante altre attività dell'uomo, ad esempio di tipo morale, religioso o politico molto importanti per la sua vita sociale e spirituale, ma non rientrano nella sfera dell'attività scientifica. Ne possono scaturire discorsi interessanti e profondi, ma non sono discorsi scientifici. E' importante che questo concetto venga compreso con chiarezza prima di procedere.



3. L'ORIGINE DEL SISTEMA SOLARE

Torniamo ora alla domanda che ci eravamo posti all'inizio. Esiste la possibilità che nell'Universo siano presenti altre forme viventi oltre a quelle che possiamo osservare sotto i nostri occhi? Più in particolare, esistono altri esseri intelligenti?

Per rispondere a queste domande dovremmo, innanzitutto, identificare i luoghi entro i quali andare a cercare. Già, ma a cercare cosa? Naturalmente la vita, come abbiamo appena detto. Ma che cosa è la vita? Sotto quali forme si presenta? Esistono organismi viventi profondamente diversi da quelli presenti sulla Terra, o dobbiamo immaginarli tutti più o meno simili a quelli che osserviamo vicino a noi?

Le forme viventi che conosciamo sono sistemi materiali costituiti da un insieme di molecole complesse e ben organizzate, in grado di immagazzinare e trasmettere un gran numero di informazioni. Tutto ciò richiede la presenza di un atomo con caratteristiche eccezionali che solo il carbonio possiede. Dobbiamo cercare solo questo tipo di vivente?

C'è qualcuno che ipotizza l'esistenza di forme viventi costituite di molecole che hanno per base l'atomo di silicio invece che quello di carbonio. Tale ipotesi si basa sul fatto che l'atomo di silicio assomiglia a quello di carbonio in quanto è anch'esso tetravalente e forma legami silicio-silicio come il carbonio forma legami carbonio-carbonio. In realtà la chimica del silicio è profondamente diversa da quella del carbonio e per noi è molto difficile immaginare organismi costruiti con atomi di silicio anche perché la Terra è piena di silicio e, qualora fossero possibili forme viventi formate da tale elemento, queste si sarebbero dovute sviluppare anche sul nostro pianeta. In più si consideri il fatto che le nostre conoscenze nel campo della biochimica sono troppo scarse per valutare la possibilità che vi possano essere strutture viventi totalmente diverse da quelle presenti qui da noi. Per questo motivo andremo alla ricerca solo di forme di vita più o meno del tipo di quelle di cui abbiamo esperienza diretta.

Gli organismi viventi a noi noti, come dicevamo, sono formati da delicate e complesse strutture chimiche in continuo rifacimento, ma, nello stesso tempo, molto stabili. Non è quindi possibile immaginare la presenza di molecole di questo genere in qualsiasi luogo. Ad esempio non potrebbero resistere senza modificarsi chimicamente e fisicamente, sulle stelle, dove sussistono temperature elevatissime in grado di fondere ogni cosa, né negli spazi interstellari, dove viceversa si registrano temperature bassissime che irrigidiscono qualsiasi tipo di materia. I pianeti (e i satelliti), con le loro temperature intermedie, rappresentano invece l'ambiente ideale per la realizzazione di quelle reazioni chimiche ordinate e diversificate, che stanno alla base del metabolismo dei viventi. Quindi, se per vita intendiamo qualche cosa di altamente organizzato e simile a ciò che siamo abituati a vedere su questa Terra, non rimangono altri luoghi dove andare a cercare, se non i sistemi planetari.

Noi però conosciamo un unico sistema planetario, il nostro, nel quale vi è un solo pianeta, la Terra, che ospita la vita. La presenza di altri sistemi planetari, all'interno della nostra Galassia (o Via Lattea), costituirebbe un punto di partenza molto importante per la nostra ricerca. Se ad esempio si venisse a scoprire che i sistemi planetari sono rari, si rafforzerebbe l'idea che la vita è un fatto eccezionale che forse si è realizzato solo sulla nostra Terra, viceversa se si scoprisse che i sistemi planetari sono numerosissimi la ricerca di altre forme di vita ne verrebbe stimolata. Per dare risposta a questa domanda è necessario sapere, innanzitutto, come si origina un sistema planetario.

Noi, come abbiamo detto, non abbiamo conoscenza diretta di altri sistemi planetari diversi dal nostro, e pertanto non abbiamo a disposizione altri dati di osservazione, per formulare un'ipotesi sulla loro origine, se non quelli che possiamo raccogliere sul Sole, sui nove pianeti che gli orbitano intorno e sui satelliti che a loro volta girano intorno ai pianeti. Con questi dati è possibile formulare delle ipotesi, che per il momento, tuttavia, non potranno essere verificate su altre realtà.

All'inizio del secolo che si è appena concluso era accreditata una serie di ipotesi (diverse solo nei dettagli), che potremmo definire di tipo catastrofico (o dualistico), secondo le quali il nostro sistema planetario sostanzialmente si sarebbe formato per l'avvicinarsi di una stella al Sole: a causa della forza gravitazionale, si sarebbe prodotta una fuoriuscita di materia dalla quale si sarebbero quindi originati i pianeti.

Questo genere di ipotesi sulla formazione del sistema planetario pone immediatamente delle limitazioni al problema relativo alla presenza di altre forme viventi nel Cosmo, perché riduce drasticamente il numero di altri luoghi adatti alla vita. Un'ipotesi del genere suggerisce, infatti, che la formazione di un sistema planetario debba essere un evento eccezionale, in quanto, a causa degli enormi spazi che separano le stelle, l'urto, o anche il semplice avvicinamento fra due di esse, rappresenterebbe un evento molto raro. La distanza fra due stelle è mediamente cento milioni di volte superiore al loro diametro; ciò equivale a dire che se una stella venisse immaginata delle dimensioni di una capocchia di spillo questa si troverebbe a distanza di decine di kilometri da una sua simile. Si è calcolato che nel corso della vita della nostra Galassia si sarebbero verificati, al suo interno, non più di una decina di incontri ravvicinati da cui si sarebbe potuto formare un sistema planetario.

Se accettassimo per buona questa ipotesi, dovremmo concludere che ben difficilmente potremo scoprire altri sistemi planetari in mezzo ai miliardi di stelle che formano la nostra Galassia. Inoltre, una volta trovati, questi potrebbero anche essere tutti disabitati. Se pertanto volessimo andare alla ricerca di altre forme di vita in luoghi simili alla nostra Terra, il discorso sulla loro presenza nell'Universo si chiuderebbe qui, prima ancora di iniziare.

Oggi invece è accreditata una serie di ipotesi (anche in questo caso diverse solo nei dettagli) sulla formazione del nostro sistema planetario, che porta a conclusioni diametralmente opposte. Secondo queste ipotesi il sistema solare si sarebbe formato dalla evoluzione di una nube di gas e polvere in lenta rotazione che avrebbe generato i pianeti alla periferia, mentre al centro si sarebbe condensato il Sole. Queste ipotesi sono dette evoluzionistiche (o monistiche) e costituirebbero un evento del tutto normale e quindi facilmente ripetibile. A differenza delle ipotesi precedenti, queste seconde porterebbero a concludere che, di sistemi planetari, la nostra Via Lattea è piena zeppa e se si prendessero in considerazione anche le altre galassie (che si contano a miliardi), il numero dei possibili mondi abitati diventerebbe sterminato.

Se vogliamo quindi continuare il nostro discorso relativo alla presenza di forme viventi nel Cosmo, dobbiamo accettare, gioco forza, quest'ultima ipotesi. Certo, i ragionamenti che abbiamo fatto fin qui hanno ben poco di scientifico, perché non sono basati su dati di osservazione. Tuttavia, obbiettivamente, dobbiamo convenire che esiste qualche punto in più a favore delle ipotesi evoluzionistiche rispetto alle altre.

A sostegno dell’ipotesi evoluzionistica si è osservato che i pianeti compiono il loro moto di rivoluzione e di rotazione tutti nello stesso senso e in concordanza anche con quello di rotazione del Sole; inoltre, gli assi di rotazione dei pianeti sono tutti quasi paralleli fra loro e paralleli a quello dell'astro centrale; infine, la loro distanza dal Sole non è una distanza qualsiasi ma segue una legge scoperta due secoli addietro dagli scienziati tedeschi Johann Daniel Tietz (latinizzato in Titius) e Johann Elert Bode. Questa legge, che va sotto il nome di "legge di Titius e Bode", dice che le distanze fra un pianeta e il successivo aumentano progressivamente con la lontananza dei pianeti dal Sole. Ora, tutte queste regolarità vengono appunto spiegate meglio con l'ipotesi della nebulosa primitiva che non con quella dell'avvicinamento casuale di due stelle. A ciò si aggiunga il fatto che recentemente, con l'uso di potenti calcolatori, è stato possibile seguire matematicamente il contrarsi di una nube di gas sotto l'effetto della gravitazione, e si è visto che la formazione di un sistema planetario è un evento assai probabile.



4. LA RICERCA DI SISTEMI PLANETARI

Anziché fare delle ipotesi sulla presenza di altri sistemi planetari, la cosa migliore sarebbe quella di scoprirne qualcuno. Ma come possiamo fare per vederli direttamente? I pianeti si trovano molto vicini alla stella intorno a cui girano e quindi per vederne uno, si dovrebbe utilizzare un telescopio con potere risolutivo (cioè con la capacità di vedere separati due oggetti vicini) altissimo. Se le osservazioni vengono condotte da Terra, a causa soprattutto della presenza dell'atmosfera che disturba notevolmente l'immagine, questo accertamento è praticamente impossibile, anche per le stelle più vicine. Ma se le osservazioni venissero fatte da un telescopio sistemato nello spazio, si riuscirebbe forse ad ottenere qualche risultato apprezzabile.

Il problema vero, tuttavia, non è tanto quello legato al potere risolutivo dello strumento, quanto piuttosto di riuscire a scorgere un oggetto (il pianeta) vicino ad un altro (la stella) circa un miliardo di volte più splendente. Un pianeta che girasse intorno ad una stella, in realtà, si troverebbe letteralmente immerso nella sua luce abbagliante e sarebbe impossibile da distinguere, come è impossibile scorgere un moscerino che gira intorno ad un faro posto a due o trecento metri di distanza. Anche questa difficoltà potrebbe tuttavia essere superata ricorrendo ad alcuni accorgimenti tecnici da applicare però solo su telescopi piazzati nello spazio.

Esiste un altro sistema che dovrebbe consentire di osservare la presenza di oggetti massicci orbitanti intorno ad una stella. La tecnica è detta astrometria, e consiste nel misurare la deviazione di una stella dal suo moto regolare, prodotta dalla gravità di un eventuale oggetto orbitante. La prima osservazione del genere venne effettuata nel 1969 dall'astronomo olandese Peter Van de Kamp il quale notò che la traiettoria percorsa dalla stella di Barnard, nel corso degli anni, era una linea ondulata dovuta, presumibilmente, alla presenza di un oggetto massiccio intorno ad essa. Questi risultati non sono stati purtroppo confermati da osservazioni successive e lo stesso Van de Kamp, riesaminando i dati raccolti, mise in dubbio ciò che egli stesso aveva individuato. In verità, osservazioni di questo tipo sono state tentate, in tempi recenti, su altre stelle e con discreto successo, nonostante le difficoltà legate alla limitata sensibilità degli strumenti.

Occorre pertanto spiegare più diffusamente in che cosa consista la tecnica astrometrica. Le stelle, come ben sappiamo, non sono fisse nello spazio ma si muovono percorrendo traiettorie curve di enormi dimensioni intorno al centro della galassia. Il nostro Sole, ad esempio, impiega 200 milioni di anni per fare un giro completo intorno all'asse della Via Lattea. Questa traiettoria curva, per un breve tratto, può essere considerata rettilinea. Il Sole, tuttavia, non si muove lungo un percorso rettilineo (o, se si preferisce, a curvatura molto ampia) regolare, e se lo si potesse osservare da lontano lo si vedrebbe compiere un cammino leggermente sinuoso con un periodo di circa 12 anni (il periodo orbitale di Giove, il pianeta più grosso del sistema solare). Un pianeta massiccio infatti perturba, anche se molto leggermente, la traiettoria della stella intorno a cui orbita. Quindi, se noi notassimo in una stella delle dimensioni più o meno del nostro Sole, posta ad una distanza non molto grande, delle deviazioni dalla traiettoria rettilinea del valore di quelle calcolate per il Sole, dovremmo concludere che intorno a quella stella vi è un pianeta più o meno delle dimensioni di Giove. In realtà, le deviazioni che eventualmente si potrebbero osservare, nel caso considerato, sono molto piccole (dell'ordine di grandezza del millesimo di secondo d'arco), e comunque molto inferiori agli errori di misura che si compiono con i più moderni e sofisticati strumenti di indagine.

Oggi, tuttavia, con l'entrata in funzione dell'Hubble Telescope Space, è stato possibile riconoscere alcune decine di sistemi extrasolari. In realtà, il telescopio posto nello spazio ha individuato dei corpi intorno ad alcune stelle ma non ha potuto specificare con sicurezza di che cosa effettivamente si tratti: potrebbero essere pianeti massicci o piccole stelle, non certo pianeti piccoli come la nostra Terra. Da questo punto di vista Giove stesso, che noi consideriamo un pianeta, in realtà presenta caratteristiche fisiche molto simili a quelle di una stella di piccola massa.

Accenniamo infine ad un metodo di rilevazione moderno basato su osservazioni nell'infrarosso. I pianeti, come sappiamo, non emettono luce propria, bensì radiazioni infrarosse tipiche dei corpi caldi, ma non incandescenti. Se quindi in una stella lontana si osservasse un'emissione di radiazione infrarossa superiore a quella presente normalmente nei corpi incandescenti, dovremmo concludere che, intorno a quella stella, vi sono "corpi" relativamente freddi.

Nonostante tutti i tentativi la verità, per il momento, rimane una sola: non siamo in grado di dire con certezza se esistano o meno altri sistemi solari simili al nostro all'interno della Via Lattea, e tanto meno se ne esistano su altre galassie.



5. LE CARATTERISTICHE DEI MONDI ABITATI

Tuttavia, ammesso pure che nella nostra (o fuori della nostra) Galassia vi siano degli altri sistemi planetari, quali condizioni dovrebbero sussistere affinché su qualche pianeta, satellite o asteroide di questi sistemi possa svilupparsi la vita? L'esistenza di un sistema solare simile al nostro è, ovviamente, una condizione necessaria, ma non sufficiente per aspettarsi uno sviluppo biologico. Perché ciò possa avvenire, devono infatti realizzarsi tutto un insieme di fattori interdipendenti riguardanti sia la stella centrale sia il pianeta candidato ad ospitare la vita. Quali sono queste condizioni?

Certamente dovremmo scartare, anche ammesso che avessero una corte di pianeti orbitanti, le stelle troppo grandi e quelle troppo piccole. Sappiamo, infatti, che le stelle molto grandi sono anche molto instabili ed hanno vita piuttosto breve perché consumano il combustibile rapidamente (in pochi milioni di anni), mentre abbiamo esperienza diretta che affinché la vita possa affermarsi occorrono alcuni miliardi di anni.

Per il motivo opposto, le stelle non dovrebbero essere nemmeno troppo piccole, perché in tal caso avrebbero esistenza lunghissima e su un loro eventuale pianeta la vita avrebbe avuto tutto il tempo per evolvere fino all’estinzione. Le specie animali e vegetali, infatti, mutano e si estinguono in tempi relativamente brevi se confrontati con i miliardi di anni di vita di una stella di piccole dimensioni. Una stella di questo tipo, inoltre, irraggerebbe poco calore e l'eventuale pianeta dovrebbe sistemarsi molto vicino ad essa per ricevere energia sufficiente. Ma un pianeta che si trovasse molto vicino ad una stella, anche se di piccole dimensioni, risentirebbe in modo eccessivo della forza gravitazionale, la quale provocherebbe maree terrestri di tale intensità da rendere instabile la sua superficie e naturalmente, a causa dell’incessante attività sismica e vulcanica che ne deriverebbe, impossibile la presenza di organismi viventi.

Dovremmo anche scartare molte stelle doppie e multiple, perché eventuali pianeti seguirebbero traiettorie tali da portarli a volte troppo vicino e a volte troppo lontano da uno dei Soli. In questo modo non verrebbero garantite quelle condizioni di uniformità di radiazione, di pressione e di temperatura indispensabili per lo sviluppo degli organismi viventi. Per le stesse ragioni dovremmo scartare tutte le stelle variabili.

Ora, ammesso che le stelle "buone", cioè in pratica quelle simili al nostro Sole, che sono comunque molto numerose all'interno della nostra Galassia, abbiano tutte una corte di pianeti che gira loro intorno, il singolo pianeta quali caratteristiche dovrebbe possedere per trovarsi nelle condizioni di generare un ambiente adatto ad ospitare organismi viventi?

Intanto è evidente che questo pianeta dovrebbe trovarsi ad una distanza giusta dal suo Sole, cioè né troppo lontano perché le temperature risulterebbero troppo basse per lo svolgimento delle reazioni chimiche tipiche della vita, né troppo vicino perché il calore sarebbe tale da rompere le delicate molecole organiche di cui sono fatti gli organismi viventi. Esso inoltre non dovrebbe essere né troppo grande, né troppo piccolo. Se fosse molto grande tratterrebbe i gas dell'atmosfera primitiva, cioè in pratica idrogeno ed elio, e inoltre la superficie non si raffredderebbe velocemente per consentire il formarsi di una crosta solida. Se fosse troppo piccolo perderebbe tutti i gas, non si formerebbe un'atmosfera stabile, e finirebbe per diventare un corpo simile alla Luna, che infatti è un satellite "morto" privo di atmosfera. Anche il periodo preciso di rotazione intorno al proprio asse avrebbe la sua importanza per garantire condizioni di omogeneità climatica.

La cosa che colpisce, quando si cerca di elencare le caratteristiche che dovrebbe possedere un pianeta per candidarsi ad ospitare forme viventi, è che si finisce per descrivere un corpo celeste non molto dissimile dalla nostra Terra! Questo succede perché, come abbiamo detto più volte, noi sappiamo abbastanza bene come funziona la vita sul nostro pianeta, e riteniamo (forse in modo colpevolmente antropocentrico?) che le forme viventi eventualmente presenti da altre parti debbano avere più o meno le caratteristiche che osserviamo qui da noi.



6. IL PROBLEMA DELL'ORIGINE DELLA VITA

A questo punto sarebbe indispensabile, per procedere nella nostra indagine, dare una definizione chiara e completa di “vita” e vedere quindi come la stessa sarebbe potuta comparire sul nostro pianeta.

Purtroppo, però, pur conoscendo abbastanza bene come sono fatti e come funzionano i singoli organismi viventi, non sappiamo che cosa sia effettivamente la vita e non siamo quindi in grado di dare di essa una definizione precisa e inequivocabile.

Una definizione di vita, incompleta e parziale, tuttavia, potrebbe essere la seguente: «La vita è lo svolgimento, all'interno di un sistema materiale, di un insieme di processi chimici ordinati garantiti da un continuo rifornimento di energia dall'esterno». Come abbiamo detto in precedenza, qualcuno ha prospettato anche forme di vita con caratteristiche profondamente diverse da quelle a noi familiari, fondate, ad esempio, sul silicio invece che sul carbonio, o sull'ammoniaca invece che sull'acqua. Queste forme di vita rientrerebbero nella definizione che abbiamo dato sopra in quanto l'atomo di silicio è in grado di formare anch'esso molti composti di diverso tipo legandosi (anche se più debolmente) con sé stesso come fa l'atomo di carbonio. Tuttavia, forse sarà per mancanza di fantasia, ma ci riesce effettivamente difficile immaginare qualche cosa che sia realmente e profondamente diverso dalla vita della quale abbiamo esperienza diretta.

Noi conosciamo abbastanza bene solo le forme viventi presenti sulla Terra e da qui partiremo per la nostra ricerca. In quali condizioni chimiche e fisiche dovrebbe trovarsi un pianeta per essere reputato adatto all'insorgere della vita? E poi, qualora queste condizioni si realizzassero, la vita effettivamente avrebbe origine? Per rispondere in modo appropriato a queste domande dovremmo, innanzitutto, avere le idee ben chiare su come funzionano gli organismi viventi sulla Terra e su come gli stessi hanno avuto origine.

Quello che sappiamo con certezza è che gli esseri viventi presenti sul nostro pianeta sono costituiti per il 95% del loro peso di carbonio, ossigeno, idrogeno e azoto, e che questi elementi sono anche molto abbondanti nell'Universo. Gli stessi elementi, inoltre, possiedono proprietà chimiche molto speciali che li rendono unici fra tutti quelli esistenti in natura.

Gli elementi base della vita si uniscono infatti fra loro attraverso legami chimici molto forti e formano lunghe e complesse catene di atomi in grado perfino, come nel caso del DNA, di duplicarsi spontaneamente. Nel far ciò possono prodursi delle alterazioni, cioè dei cambiamenti della struttura molecolare, che i biologi chiamano mutazioni e che stanno alla base del fenomeno dell'evoluzione. Tutte queste proprietà vengono ritenute indispensabili per poter definire "vivente" un sistema materiale.

I biologi ritengono, inoltre, che i composti organici tipici degli esseri viventi si siano potuti formare spontaneamente, miliardi di anni fa, da molecole inorganiche attraverso processi non biologici. A questo riguardo esiste un esperimento che è rimasto famoso.

Nel 1953, il biochimico americano Stanley Müller, dimostrò che in adatte condizioni fisiche, molecole inorganiche a struttura molto semplice si organizzano in materiali prebiotici, cioè in molecole più complesse tipiche degli organismi viventi. Egli sottopose una miscela di metano (CH4), ammoniaca (NH3), idrogeno (H2) ed acqua (H2O), che si pensava costituisse l'atmosfera primitiva, a scariche elettriche molto intense. Dopo alcuni giorni osservò che si erano formati molti composti organici fra cui alcuni amminoacidi, i costituenti delle proteine, cioè dei composti che formano la struttura portante degli organismi viventi.

Molti altri esperimenti di questo genere vennero eseguiti negli anni successivi, cambiando le miscele di gas e la forma di energia. Si ottenne in questo modo la conferma che sottoponendo composti inorganici di varia natura, ma sempre a base di carbonio, ossigeno, idrogeno, azoto, zolfo e fosforo (gli elementi chimici fondamentali degli organismi viventi) all'azione di scariche elettriche, raggi ultravioletti, alte temperature, onde d'urto come quelle causate dall'eventuale impatto di meteoriti, questi si trasformano in composti organici tipici degli organismi viventi, come glucidi, lipidi, amminoacidi e nucleotidi, i costituenti, questi ultimi, del DNA e dell'RNA.

Purtroppo la ricerca scientifica non è riuscita a compiere il passo successivo. I biologi, infatti, non sono ancora arrivati a dimostrare come dal materiale organico si possa passare all'organismo vivente vero e proprio. Essi sono riusciti invece a comprendere perfettamente il meccanismo attraverso il quale da poche forme viventi originarie si sia poi arrivati all'enorme varietà di quelle attuali. Il meccanismo è stato individuato da Charles Darwin verso la metà dell’Ottocento e prende il nome di “evoluzione attraverso selezione naturale”.

Riguardo alla data della comparsa degli organismi viventi sulla Terra ricerche molto scrupolose, basate sul decadimento radioattivo di alcuni elementi come l’uranio 238, hanno confermato che la vita ha avuto origine circa tre miliardi e mezzo di anni fa, cioè circa un miliardo di anni dopo che si era formato il pianeta. Abbiamo anche le prove che dopo la sua comparsa, la vita ha subito uno sviluppo molto lento; poi, circa mezzo miliardo di anni fa, si sono finalmente evoluti gli organismi che possiamo considerare i diretti precursori di quelli attuali.

Questa particolare scala dei tempi è frutto del caso, oppure riveste uno speciale significato? Non lo sappiamo, ma è certamente rimarchevole il fatto che l'evoluzione abbia prodotto, per i primi tre miliardi di anni solo esseri unicellulari anche se sempre più complessi e meglio organizzati, e soltanto nell'ultimo mezzo miliardo di anni tutta quella straordinaria profusione di organismi complessi (tra cui l'uomo stesso) che ora popolano la Terra. Potrebbe darsi, ad esempio, che la vita pluricellulare abbia tardato a svilupparsi per la mancanza di qualche particolare condizione ambientale ad essa necessaria, che soltanto da poco più di mezzo miliardo di anni ha potuto realizzarsi sul nostro pianeta; ma non abbiamo a tutt'oggi la più pallida idea di quale condizione poteva trattarsi.

Più verosimilmente, potremmo dare alla scala dei tempi dell'evoluzione terrestre un significato probabilistico, valido forse per qualsiasi pianeta; ma dobbiamo far presente che si tratta comunque di un'estrapolazione molto ardita. L'idea base è la seguente: nella statistica degli eventi casuali, la frequenza con cui questi accadono, è proporzionale alla loro probabilità (non capita tutti i giorni, ad esempio, di vincere un terno al lotto). Quindi, se è vero che l'evoluzione procede mediante "balzi" casuali che l'ambiente provvede successivamente a selezionare salvando i più adatti, ne dovremmo concludere che il "balzo" più difficile nel cammino dell'evoluzione sarebbe stato non già la comparsa delle prime cellule (presenti sulla Terra subito dopo la solidificazione della crosta), ma proprio la transizione dagli esseri unicellulari (alghe azzurre e batteri) a quelli pluricellulari (meduse e vermi) che ha richiesto un tempo ben più lungo. Dopodiché, il passaggio da questi primi organismi pluricellulari all'essere intelligente sarebbe stato un passo piuttosto rapido che si concluse in poco più di 500 milioni di anni.

La vita extraterrestre non sarà per caso costituita solo da batteri? Se così fosse non solo sarebbe estremamente difficile scoprirne qualcuno negli spazi cosmici, ma dovremmo anche guardare ai primi fossili pluricellulari, scoperti nelle rocce dell’Australia meridionale (che hanno un’età di circa 600 milioni di anni) come ad un’autentica meraviglia dell'Universo.

Ora, su un pianeta di un lontano sistema solare, in cui si siano realizzate le condizioni fisiche e chimiche simili a quelle terrestri, quante probabilità vi sono che la vita sia poi potuta fiorire effettivamente? Questo è un interrogativo di importanza primaria per la possibilità dell'esistenza di vita extraterrestre. Purtroppo non ne conosciamo la risposta in termini scientifici perché abbiamo a disposizione solo i dati relativi ad un pianeta, il nostro, e ciò non è sufficiente per eseguire calcoli statistici e probabilistici. Comunque i biologi ritengono che i processi biochimici che hanno portato la materia bruta ad organizzarsi in forme viventi molto semplici e poi a progredire fino a portare all'uomo, siano piuttosto complessi e delicati e quindi difficilmente ripetibili. Esiste tuttavia qualche irriducibile ottimista che ritiene che una volta create le condizioni chimico-fisiche adatte, la vita debba poi necessariamente comparire e svilupparsi e, a sostegno di questo convincimento, porta l'osservazione recente di alcune molecole organiche, tipiche degli organismi viventi, formatesi negli spazi interstellari.



7. LA VITA INTELLIGENTE

Per completare l'argomento relativo all'evoluzione delle forme viventi rimane da stabilire quanto durerà ancora la specie umana o, per meglio dire, quanto durerà la civiltà tecnologica che l'uomo moderno è riuscito a realizzare grazie alla propria intelligenza. Per rispondere a questa domanda considereremo prima l'uomo da un punto di vista biologico, cioè come specie vivente simile a tutti gli altri animali, e poi lo analizzeremo in quanto essere dotato di intelligenza.

La teoria evoluzionistica, a cui abbiamo accennato in precedenza, ci insegna che le specie animali e vegetali non sono eterne. I biologi hanno calcolato che una specie animale si modifica profondamente, fino a perdere la sua identità, mediamente in un milione di anni. I mammiferi hanno tempi di ricambio più lunghi quindi possiamo ipotizzare che entro quattro o cinque milioni di anni anche l'uomo, in quanto specie animale, sparirà dalla faccia della Terra o verrà sostituito da una specie diversa. Qualcuno ritiene che la specie umana verrà sostituita da una migliore, cioè con potenzialità intellettive superiori. Ma questa è un'idea fuorviante.

Il termine evoluzione molto spesso viene inteso come cambiamento verso un miglioramento, ma in natura non esiste il meglio o il peggio in assoluto. In natura tutti gli organismi presenti in un determinato momento storico devono essere ritenuti i più adatti, quindi i migliori possibili rispetto alla situazione di quel momento, ma non i migliori in assoluto, cioè rispetto ad una situazione qualsiasi. L'ambiente, come ben sappiamo, non è fisso e immutabile, esso cambia continuamente in seguito all'azione erosiva dell'acqua e dell'aria sulle rocce, all'attività dei vulcani, alla presenza degli organismi viventi, ed a tanti altri fattori chimici e fisici. Pertanto continuamente nuove forme viventi, prodotte dalle mutazioni sempre in atto, vanno a sostituire quelle che non si trovano più perfettamente a loro agio nella nuova situazione che si è venuta a creare. Questa operazione di rinnovamento delle specie avviene in modo traumatico attraverso quella che Darwin definì la lotta per l'esistenza che si conclude inevitabilmente con la vittoria del più forte o, per meglio dire, del più adatto e la sconfitta del più debole, ovvero del meno adatto. Di conseguenza, poiché non è possibile prevedere come si modificherà l'ambiente, non è nemmeno possibile prevedere come saranno le specie animali e vegetali del futuro.

Il vero problema tuttavia non è tanto quello di stabilire quanto durerà la specie umana, ma piuttosto di vedere quanto a lungo potrà sopravvivere una società tecnologicamente avanzata come la nostra. Prima di affrontare l'argomento è bene chiarire che la tecnologia non è l'unica manifestazione dell'intelligenza umana. Gli antichi Greci, ad esempio, certamente non erano meno intelligenti degli attuali Americani, tuttavia non svilupparono una civiltà tecnologica.

La tecnologia, come ben sappiamo, ha bisogno di materie prime e soprattutto di energia per attuarsi e svilupparsi. La Terra, tuttavia, è limitata e le sue risorse sono destinate ad esaurirsi. Che cosa succederà quando avremo consumato tutto ciò che di non rinnovabile esiste sul nostro pianeta? Qualcuno pensa che potremo andare a rifornirci di materiali utili sul nostro satellite naturale o sui pianeti più vicini. Ma chi immagina uno scenario del genere non si rende perfettamente conto dei costi (di gran lunga superiori ai ricavi) di un’operazione del genere in termini di consumi energetici e di materiali pregiati per la costruzione dei mezzi idonei a viaggiare nello spazio. Alcuni, molto ottimisticamente, prevedono che troveremo il modo di produrre energia a basso costo e in abbondanza, ma anche in questo caso non avremmo risolto i nostri problemi.

Esiste, ad esempio, la questione dell'inquinamento. Le scorie radioattive o di altra natura e i veleni che l'uomo immette nell'ambiente in quantità sempre più rilevante finiranno per soffocarlo e per produrre danni talmente gravi e irreversibili sull'ambiente stesso che lo costringeranno a rinunciare allo sviluppo tecnologico per tornare ad una dimensione di vita più aderente alle regole imposte dalla natura. E che dire delle armi potentissime che l'uomo è riuscito a costruire in questi ultimi anni? Fino a quando egli sarà in grado di controllare il potenziale distruttivo di cui è venuto in possesso? Vi è infine l'incremento demografico che non accenna a ridursi e che, secondo alcuni, costituisce il problema dei problemi.

Secondo i futurologi (personaggi che studiano i possibili scenari futuri), una civiltà tecnologicamente avanzata contiene in sé il germe dell'autodistruzione. Ciò sarebbe insito nella natura stessa degli organismi viventi i quali sopravvivono solo se escono vincitori dalla lotta per l'esistenza. Se le cose stanno in questi termini (e sembra difficile negarlo), è evidente che un essere intelligente, avendo la possibilità di fabbricare strumenti di offesa, li usi poi per eliminare i propri nemici al fine di crearsi maggiori margini di sicurezza.

Quanto potrebbe quindi durare una civiltà tecnologicamente avanzata? Poco, dicono i pessimisti, i quali fanno osservare che la nostra esiste, a un buon livello di sviluppo, solo da alcuni decenni e sembra già sull'orlo dell'autodistruzione. Molto, dicono gli ottimisti, i quali sono convinti che l'uomo troverà il sistema per superare tutti i pericoli e i limiti che la stessa tecnologia produce. Secondo i primi una società tecnologicamente avanzata come la nostra potrebbe quindi durare al massimo qualche centinaio d'anni, secondo gli ottimisti invece anche un milione di anni. Ebbene, noi ci schieriamo, anche se con poca convinzione, con questi ultimi.

Tuttavia, anche ammettendo che tutte le forme di vita intelligente eventualmente presenti nell'Universo siano in grado di produrre civiltà tecnologiche della durata di un milione di anni, la probabilità di comunicare con extraterrestri sarebbe lo stesso molto bassa perché si dovrebbe tenere conto dell'età della nostra Galassia. E' evidente infatti che due civiltà tecnologicamente avanzate, per poter comunicare fra loro, dovrebbero essere contemporanee. Se una civiltà durasse un milione di anni in un certo periodo di esistenza della Via Lattea ed un'altra durasse pure un milione di anni, ma ad esempio un miliardo di anni dopo che la prima si è estinta, le due civiltà ovviamente non potrebbero comunicare fra loro. Ecco allora che per stimare la probabilità che due civiltà possano coesistere nel tempo, occorrerebbe sapere quanto a lungo può vivere una galassia.

I dati più recenti a disposizione della scienza confermano che l'Universo è nato circa 15 miliardi di anni fa, mentre le galassie si sarebbero formate solo un po' più tardi e continueranno ad esistere fino a tanto che rimarranno in vita le stelle che le compongono. Una stella come il Sole ha una vita di una decina di miliardi di anni; altre stelle durano di meno e terminano la loro esistenza esplodendo. Vi sono anche stelle a vita più lunga, e alcune si formano dal materiale prodotto dall'esplosione di quelle instabili. Lo stesso nostro Sole è una stella di seconda generazione nel senso che si è formata dal materiale espulso da una supernova cioè da una stella esplosa circa 5 miliardi di anni fa. Tenuto conto di tutte le conoscenze acquisite, gli astronomi ritengono che la vita media di una galassia sia di 30 miliardi di anni. Se così fosse, il rapporto fra la durata di una civiltà tecnologicamente avanzata (stimata da noi ottimisticamente in un milione di anni), e la durata di una galassia (stimata in 30.000 milioni di anni), sarebbe 1/30.000.


http://www.cosediscienza.it/astro/10.%20ALLA%20RICERCA%20DEGLI%20EXTRATERRESTRI.htm

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